“Da un video in cui si vedevano delle bolle d’aria venir su da un’acqua scura, riecheggiava il riverbero di un suono profondo. Qualcosa di simile a un respiro a pieni polmoni o a un canto muto. Sembrava una voce che chiamasse gentilmente.
‘Questo è il canto delle balene’.
Le sue sopracciglia si alzarono un poco.
‘Ti sei stupito, vero? Sai, le balene fatto questo canto per chiamare i loro amici. […] Non è fantastico? Riuscire a far arrivare la propria voce ai compagni in un mare così grande e profondo. […]’
Per lasciarsi alle spalle una famiglia che l’ha ferita, umiliata e che non riconosce più come sua, Kiko si è trasferita in un villaggio vicino al mare. L’accoglienza non è, però, delle migliori; è spesso incompresa, criticata o addirittura vittima di pettegolezzi.
Per caso, un giorno la donna incrocia Mushi, anche lui con una storia difficile alle spalle e, per di più, in paese ritenuto problematico e poco perspicace. I due condividono lo “stesso odore. Quello di chi non è stato amato dai propri genitori ed è solo. […] L’odore della solitudine non proviene dalla pelle o dalla carne, ma è radicato nel cuore”.
Ma “Il canto della balena” di Machida Sonoko è molto di più del racconto dell’incontro fra i due: è il ritratto, delicato e potente, di un mondo in cui le identità, le storie, le parole hanno un valore particolare, persino catartico.
Lo stile dell’autrice amplifica ciò: “[l]a narrazione”, ricorda il traduttore Giuseppe Giordano, “è costruita secondo un sapiente gioco di specchi e richiami”, capace di rendere questo romanzo ancora più suggestivo e originale.
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